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I talk show sono in crisi e la politica non si sente tanto bene

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I talk show politici sono in crisi e, che si convenga sull’affermazione ovvero la si reputi infondata, appare a tutti comunque evidente che qualcosa è cambiato, in meglio o in peggio a seconda dei punti di vista. Tali programmi costituiscono, per chi si ricorda, l’evoluzione della tribune politiche o elettorali che Jader Jacobelli moderava in modo tale da conferire ai toni delle interviste rivolte ai leader degli opposti schieramenti le medesime sfumature della televisione di quegli anni, dal bianco al nero indifferentemente: la prima serata così trascorreva tranquilla, tra dichiarazioni monocordi e soporiferi confronti, ciò in pieno spirito dei tempi.

I talk show riuscirono alcuni anni dopo a far sì che una politica diversa, nei toni di certo se non nella sostanza, uscisse allo scoperto. Essa entrò vivacemente nelle case e divenne tema di animate discussioni, finalmente colorate nonché a colori, trovando nelle tasche della gente terreno fertile per prosperare così come per destare indignazione. Del resto, parallelamente, si andavano affermando reality e vite in diretta. Stesso era il fine, diverso solo l’oggetto: palcoscenici su cui rappresentare lo spettacolo di opinioni variamente declinate da dare in pasto al pubblico pagante, il canone oppure no, comunque audience. Chiunque all’epoca fu illuso che per diventare esperto di politica nazionale, talora anche di quella oltre confine, bastasse guardare gli scontri in diretta, abilmente confezionati come scambi di argomentazioni contrastanti tra chi conosceva bene la materia e, quindi, ben sapeva cosa stesse dicendo.

Per tanti anni i telespettatori all’ascolto, formula di rito in ogni programma, ritennero che i dibattiti più o meno agguerriti tra rappresentanti di fazioni avverse o di partiti antagonisti, se seguiti con molta attenzione, consentissero di addivenire a pareri fondati circa strategie politiche da elaborare, responsabilità da attribuire e colpe da dispensare. In tal modo, i talk show politici serali divennero nell’immaginario collettivo nazionale quasi una sorta di giudizio universale utile a discernere i buoni dai cattivi e così sapere sempre da quale parte stare. Per qualche tempo è andato tutto bene per la gente, sulla cui pelle la politica era quasi indifferentemente scivolata durante gli anni precedenti: il panorama delle opinioni di leader o di retroguardie ben ammaestrate è andato così in onda a uso di coloro i quali volevano vivere in diretta la relativa lotta o anche solo capire di cosa si trattasse. Mentre il pubblico pagante – il canone o forse no, non è importante – diventava a poco a poco competente, si è compreso che si doveva andare oltre perché la TV potesse conservare quella forza attrattiva che con sempre maggior forza veniva esercitata da smartphone, tablet e schermi comunque diversi rispetto a quello della televisione. E così per tenere alti gli ascolti, mentre si abbassava la tensione degli scontri tra i politici sempre più deludenti, si è arrivati all’interazione via social network, nuovi strumenti di aggregazione delle masse.

Esprimendo opinioni sul leader di turno o rispondendo al sondaggio del giorno, mediante i tweet con l’hashtag giusto, negli ultimi anni la gente ha sentito di poter finalmente dimostrare in concreto la propria presenza, mentre i politici – fra gli stati di eccezione alla democrazia e una rappresentatività sempre più latitante – rendevano palese che di fatto essa ormai contava poco o forse niente. Non restava, dunque, altro mezzo che dire la propria opinione via Twitter nei programmi politici in prima serata, sperando che in qualche modo, insieme alle altre, potesse fare qualche differenza. Ciò soprattutto considerato che altrove, nelle sedi deputate, in nome di interessi superiori mai chiariti con sufficiente trasparenza, venivano vanificate ben altre espressioni, in particolare il voto elettorale. E così i talk show sono assurti al rango di veicolo atto a rappresentare in diretta la volontà del popolo sovrano, certo solo in televisione, ma meglio di niente.

Poi, come spesso accade, è iniziato il declino. Da mezzo di comprensione di una realtà sempre più ambigua a strumento di canalizzazione di opinioni altrimenti inascoltate, il talk show ha perso la propria condivisa valenza quando si è cominciato a capire che la politica della quale si nutriva e che ne costituiva la sostanza si era ormai completamente dissolta, che era venuto meno il tessuto su cui il programma tesseva la trama di una qualche idea, comunque rappresentata, che potesse servire, se non a uscire dalla crisi, almeno a fornire un qualche spunto. Ma ciò non basta. Nella confusione di pareri indistinguibili sempre più urlati e dunque, di fatto, già solo per il tono omologati, comprese le ormai irrilevanti differenze, è emersa con maggiore evidenza la vacuità del tutto. Dalla rissa ad arte alla difesa a oltranza, i telespettatori hanno iniziato a provare la sgradevole sensazione di essere stati raggirati, di aver subito una sorta di truffa. Perché quei talk show non solo non potevano cambiare niente, né comunque concretamente servivano alla gente, ma erano utili ancora una volta ed esclusivamente alla solita generica politica fatta di proclami e di frasi a effetto, anziché di una sia pur minima sostanza. Anche la funzione di “sfogatoio” pubblico interattivo si è esaurita quando il pubblico navigante in rete ha capito che sfogarsi non serve se poi le cose continuano ad andare per il loro verso, indifferentemente.

È finito il tempo delle parole vuote e senza impegno che ogni partecipante alla contesa praticata nei talk show dice nello stesso modo, appartenga o meno allo stesso schieramento? Così come forse va scemando la convinzione che la comunanza di opinioni e l’enfasi della condivisione, via social network e televisivamente trasmessa, ponga sempre e inevitabilmente la massa dalla parte della ragione (anche perché, quando il senso critico è latitante, semmai la ragione sta esattamente dalla parte opposta)? Se libertà è partecipazione, essa va praticata con l’intelligenza che solo dal metodo, dalla riflessione e dall’ascolto attento del singolo soggetto, se preparato, o di una platea non solo competente, ma ordinata, può essere stimolata.

A ciò si aggiunga che il giornalismo che serve, che conferisce valore a ciò che tratta, non è quello che aizza gli animi inducendo stati ansiogeni, che cerca lo scoop pur sapendo che è un falso, eventualmente anche per dimostrare che il talk show ancora non è morto. È invece quello che fa le domande necessarie ad andare oltre le apparenze e pretende risposte puntuali, che fa inchieste e propone denunce, che funge da controllore in tempi in cui il rigore non può essere declinato esclusivamente come disciplina di bilancio, ma dev’essere fondamentale metodo logico del giornalista e di chiunque altro. Questa è la strada perché la politica, ovunque esercitata, dunque anche televisivamente, abbia una chance di essere promossa: e non solo in prima serata.


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